martedì 26 dicembre 2006

Kardamyli 1 e 2 (parte prima)


Mystras l’ho vista nell’estate del 1977.
Arrivammo lì quasi per caso io, mio marito (Giorgio), una coppia di amici col loro ragazzino adolescente (Marta, Paolo, Jonathan)
e – come posso scordarla? - la nostra cagna dalmata di nome Melina.
Stavamo facendo una specie di grand tour della Grecia: Delfi, Atene, Micene, Epidauro...Tutto ci sembrava emozionante e bellissimo, anche se Giorgio ed io in alcuni di questi posti eravamo già stati.

Stremati dal caldo e dalla stanchezza – quella del ’77 fu un’estate particolarmente calda – dopo aver visto Epidauro, ci eravamo accampati per qualche
giorno a Kardamyli, un paesino del Peloponneso, sul mare, nei pressi di Kalamata.
Kardamyli era un posto bellissimo.

Giorgio ed io ci eravamo già stati due anni prima, appena sposati, in compagnia di un’altra coppia di amici, Greta e Yuri. Era stato Yuri, su consiglio di qualche suo amico greco, a indirizzarci lì. Avevamo fatto campeggio libero in un uliveto in riva al mare. A qualche decina di metri da noi avevano piazzato due tendine canadesi quattro ragazzi tedeschi. Erano belli, biondi, allegri. Il padrone dell’uliveto ci aveva dato il permesso di accamparci lì e anche di usare la pompa dell’acqua e i tedeschi facevano la doccia nudi, senza nessun imbarazzo. Giorgio e Yuri sbirciavano di nascosto ma non troppo le ragazze, due stangone che non finivano più.
Stavamo da papi, il mare era turchese, trasparente in un modo incredibile, semplicemente meraviglioso il panorama con le colline che scendevano verso la
spiaggia, con le terrazze coltivate a olivi e alle spalle la macchia verde fittissima, tra cui svettavano cipressi neri sottili come aghi. Dietro ancora, e più in alto, la vegetazione si diradava lasciando scoperte le rocce aspre del Taigeto. La chiesa e le case di pietra del paese vecchio si intravedevano in lontananza tra gli alberi.
Solo pochissimo tempo fa ho scoperto che uno scrittore che mi piace molto, Bruce Chatwin, era innamorato di Kardamyli, che definiva “il posto più bello del mondo”. E, visto che lui il mondo l’aveva girato in lungo e in largo, c’è da credergli sulla parola.
Alla sua morte, seguendo le disposizioni che aveva dato, la moglie portò le ceneri di Chatwin a Kardamyli. Alcuni sostengono che fu scavata una piccola tomba segreta accanto alla cappellina di Aghios Nikolaos, sulla collina. Altri dicono che le ceneri furono sparse nei pressi della cappella. Io preferisco credere a questi.

Nel suo lungo soggiorno a Kardamyli, durante il quale scrisse uno dei suoi libri più belli, “Le vie dei canti”, Chatwin era stato ospite di un altro scrittore e viaggiatore inglese, il suo amico Patrick Leigh Fermor, che dagli anni 50 aveva stabilito lì il suo buen retiro
(Vincenzo Calò, “Au sud du Péloponnèse”, in Diario della settimana).
Di questo personaggio, al tempo della nostra prima vacanza a Kardamyli, ignoravamo il nome. Ci era stata però segnalata la
presenza nel paese di un colonnello (?) inglese, di cui la gente parlava come di un eroe di guerra con grande rispetto, quasi con deferenza: raccontavano che aveva collaborato con i partigiani greci in imprese quasi leggendarie, a Creta.
Probabilmente ce ne aveva parlato per primo Theodorakis, n
el suo baracchino in riva al mare dove andavamo a mangiare melanzane fritte, souvlaki e scordalià. Per meglio dire, ne aveva parlato a Yuri, che in queste circostanze ci faceva da interprete. (Tra parentesi, il sapore dei piatti cucinati da questo Theodorakis è rimasto indimenticabile per tutti noi: sarà perché era effettivamente speciale o perché eravamo giovani e spensierati?).
Ma dopo Theodorakis, anche una coppia di greci anziani che avevamo conosciuto in un bar sulla spiaggia, dove ci incontravamo a bere uzo e spilluzzicare mezé, aveva accennato all’inglese, indicandocene la casa (un po’ fuori dal paese, in una posizio
ne favolosa, sulla baia di Kalamitsis, completamente nascosta dagli alberi).
Il signore greco era un antifascista, un intellettuale. Zoppicava vistosamente per problemi a una gamba. Era stato a lungo in prigione per motivi politici durante il regime dei colonnelli. La moglie aveva un viso molto bello e dolce e questo è tutto quello che ricordo di loro.
Come sembrava piena di promesse la Grecia in quei giorni, che aria di libertà si respirava! La dittatura dei colonnelli era caduta l’anno prima, nel ’74. Il nostro amico Yuri rimetteva piede per la prima volta nel suo paese dopo qualche anno di esilio volontario in Italia, dove era venuto a studiare per non fare il servizio militare sotto il regime dittatoriale.
Avevo l’impressione che in quei giorni i greci che non si conoscevano al primo contatto si annusassero tra loro come cani, per capire da che parte si stava. Con Theodorakis e la coppia di anziani Yuri si era trovato immediatamente a suo agio, così, a fiuto. Dopo, naturalmente, venivano anche i racconti, ma noi vi prendevamo parte solo grazie alla sua mediazione.
Comunque, per tornare all’impresa cretese del colonnello (o maggiore?) Fermor, resta il racconto fatto dallo stesso protagonista: detto in pochissime parole, Fermor, insieme ad altri ufficiali inglesi, nel 1942 si era fatto paracadutare sull’isola dove aveva preso contatto con membri della resistenza locale; aveva vissuto con loro per due anni fingendosi pastore e nel ’44 aveva messo a segno la cattura rocambolesca del comandante in capo della guarnigione tedesca, generale Kreipe.
La parte più bella di questo breve resoconto per me è quella in cui Fermor racconta come, alla vista del sole che spuntava dietro la cima del monte Ida, il generale tedesco prigioniero avesse mormorato tra sé i versi di un’ode di Orazio:

Vides ut alta stet nives candidum Soracte...

E come il suo carceriere – lo stesso Fermor - avesse proseguito, recitando tutte le sei strofe dell’ode fino alla fine (F. dice modestamente che era una delle poche odi di Orazio che sapeva a memoria...). Il racconto di Fermor si può leggere per intero su Adelphiana.
Attualmente Patrick L. Fermor, Paddy per gli amici, Mikalis per gli abitanti di Kardamyli – 91 anni suonati – vive ancora buona parte dell’anno a Kardamyli. E’ rimasto solo, dopo la morte della moglie, avvenuta qualche anno fa. Nel 2004 la regina Elisabetta lo ha nominato Sir per il contributo dato alla letteratura e alle relazioni anglo-greche.
Titolo a parte, Patrick/Paddy/Mikalis è davvero un personaggio notevole: a 18 anni decise di partire dall’Inghilterra alla volta di Costantinopoli. A piedi. Ci mise qualche anno, ma alla fine arrivò dove voleva. La sua curiosità per la cultura bizantina si trasformò in una vera e propria passione. Viaggiò a lungo in Romania e nei Balcani. E naturalmente in Grecia, e soprattutto nel Mani, il dito lungo e stretto del Peloponneso che si allunga verso l’Africa.
Dopo la guerra, con sua moglie percorse a piedi o a dorso di mulo i monti, le gole, visitò i paesini, le chiese, le rovine dei castelli franchi, le
mille piccole cappelle affrescate della regione. Raccolse dalla viva voce degli abitanti della zona leggende, racconti, storie di miti antichissimi, ma ancora vivi nella memoria della gente. Da tutte queste sue esperienze è nato un libro che ha avuto molta fortuna: “Mani. Viaggi nel Peloponneso”.

Nella prefazione, a un certo punto, prima di concludere, Fermor si rammarica per non aver incluso nel libro le notizie e le leggende relative alla credenza nei vampiri del Mani, ripromettendosi di trattare l’argomento in un altro volume.
“I vampiri! Ma allora non ci avevano preso in giro!” ho pensato leggendo queste parole.
Perché a caccia di quei vampiri, nella prima vacanza nel paese, eravamo andati anche noi... Cioè io, mio marito e mio fratello (non ricordo perché Greta e Yuri non erano stati della partita, si erano defilati, forse per il caldo terrificante... ).
Mio fratello Ezio ci aveva raggiunto in moto, qualche giorno dopo il nostro arrivo. Sapeva solo che avevamo campeggiato a Kardamyli perché ci eravamo parlati al telefono. Ma non mi aveva detto che aveva intenzione di raggiungerci.
In quegli anni, nella zona i turisti erano davvero pochissimi, e così non aveva faticato troppo a rintracciarci nell’uliveto in riva al mare: qualcuno gli aveva indicato dove campeggiavano gli stranieri (e il greco).
Una mattina molto presto -
dormivamo ancora - ci aveva svegliato il rombo di una moto accanto alle tende. Ecco, ci siamo, avevo pensato, è la polizia o qualche vigile che viene a farci sloggiare (il campeggio libero era vietato già allora).
Usciti dalla tenda, invece ci eravamo trovati davanti Ezio. Sceso dalla moto, si era buttato in ginocchio ai miei piedi, in modo molto teatrale, recitando una formula che usavamo tra noi per gioco quando voleva estorcermi qualche favore:
“Cara sorella! Amatissima tra le sorelle! Eccelsa tra le sorelle!
Unica tra le sorelle (ne ha altre 4), senza la quale io non potrei più vivere...”
“Insomma, che vuoi?” avevo chiesto, mentre gli altri lo fissavano allibiti.
Presto detto. Era arrivato in Grecia con una banconota da 100.000 lire e nessuno, ma proprio nessuno, era disposto a cambiargliela (effettivamente le cose andavano così).
Aveva fatto una tirata sola da Igoumenitsa a Kardamyli, spendendo per la benzina i pochi soldi che aveva in tasca oltre la banconota, mangiando pane, olive e formaggio in
una bettola, terrorizzato al pensiero che avessimo già levato le tende spostandoci chissà dove. Non c’erano ancora i cellulari, purtroppo... O per fortuna?
“Però sono riuscito a farmi capire da tutti, col mio greco del liceo – aveva concluso il suo racconto, tutto orgoglioso - ho chiesto “Oinos” e dopo un po’ l’oste ha capito che volevo del vino... Anzi me l’ha offerto lui. E mi ha detto...
“Una faccia una razza!” lo ha interrotto Yuri.
“Come fai a saperlo?”

Be’, questa storia di “una faccia una razza” allora era molto comune, i greci agli italiani la ripetevano spesso. E anche se era solo un modo di dire, chissà perché ti faceva sentire subito a casa, stabiliva tra te e la Grecia un legame sotterraneo, sottile e segreto. Un vero legame di sangue, con tutto quello di bene e di male che i legami di sangue si portano dietro.

sabato 23 dicembre 2006

Un puzzle dai confini incerti

“Riuscirò almeno a mettere ordine nelle mie terre?”

T.S.Eliot

Quando è cominciata? La smania combinatoria, l’esigenza di riannodare fili, colmare lacune, legare ricordi miei e ricordi di ricordi di altri, brandelli di conversazioni, letture, fotografie, poesie, impressioni rimaste nella memoria nitide e nuove come la prima volta. Dico, quando è cominciata questa specie di mania?

Di preciso non lo so, forse cinque, sei anni fa, leggendo all’inizio della primavera “La terra desolata”: rito scaramantico che ripeto ogni volta che torna marzo (“O rondine rondine”), in attesa che torni anche l’aprile, che come tutti sanno è il mese più crudele... Al verso che dice: “ I can connect nothing with nothing”, non posso connettere niente con niente, mi sono impuntata. Sì, probabilmente è andata così, leggendo quelle parole devo aver pensato che il castigo peggiore, l’anticamera della morte, è non sapere, non potere più connettere niente con niente. E quest’idea ha cominciato a ronzarmi in testa e a ripresentarsi a ogni passo.

E allora, finché ci riesco, proviamo a connettere tutto con tutto, mi sono detta. Be’, non proprio tutto, sarebbe un’impresa titanica. Ma almeno qualcosa che mi sta a cuore. C’è un filo rosso, a volte abbastanza sfilacciato, a volte addirittura invisibile, che nella trama della mia vita unisce avvenimenti, personaggi storici, luoghi che per me sono stati importanti. Un filo che si è dipanato attraverso tanti anni, portandomi a rivedere certi posti, sfogliare certi libri, cercare in internet le notizie più strampalate (grazie con tutto il cuore a Google, senza cui non sarei mai e poi mai arrivata a poter mettere insieme queste note).

“Parla, memoria” è il titolo di un libro di Nabokov che amo molto. “E non fare troppi scherzi...” aggiungerei io. Non è detto che quando si racconta qualche esperienza vissuta molto tempo fa, le cose siano andate proprio così. Ho confrontato spesso i miei ricordi con quelli di mio marito e di altri che hanno vissuto insieme a me gli stessi avvenimenti: nessuno ricorda le cose allo stesso modo, anche se sostanzialmente i fatti restano quelli. Ma ci sono dettagli che a me sono rimasti impressi e che altri hanno dimenticato. E viceversa.

Ogni tanto, dinanzi al buio completo dei ricordi degli altri, mi è venuto persino il dubbio che certi particolari la mia memoria li abbia inventati di sana pianta. Tranne poi qualche volta trovarne conferma a distanza di tempo, in una fotografia, o in un libro, o in annotazioni sparse qua e là in vecchie agende.

La fantasia ci avrà anche messo qualcosa di suo (i ricordi immaginari non sono rari, si sa): per quanto mi è stato possibile, però, ho cercato di attenermi ai fatti.

Sono in debito con tutte le letture che ho fatto. Cercherò sempre di citare le mie fonti, che sono le più disparate: dai saggi di Eugenio Garin a Wikipedia , da “Le voyage de Sparte” di Barrès alle dissertazioni dei professori di “Engramma”, (rivista web degli epigoni di Aby Warburg), dalle pagine puntigliose di Carlo Ginzburg a notizie non verificabili, carpite qua e là in internet, dagli scritti di Pier Giorgio Pasini alla Guida Michelin, a... un mucchio eterogeneo di libri.

E, malgrado l’epigrafe prestigiosa, sì è capito che questo racconto non avrà nessuna pretesa di rigore e attendibilità storica? Spero di sì. Non avrà nessuna pretesa in assoluto, è scritto così come viene, alla buona, soprattutto per me stessa. E per gli amici, se vorranno leggerlo.

Alla fine ne è venuto fuori un mosaico – ma no, è un termine troppo impegnativo – diciamo un puzzle, dai confini mobili, che di tanto in tanto si arricchisce di qualche pezzo nuovo, così che cambia continuamente forma. Tanti pezzi sono ancora fuori posto, qua e là ci sono lacune. Riuscirò mai a completarlo? A sistemare tutto in un disegno coerente e che significhi qualcosa, a contenerlo entro limiti precisi? Mah.

Per ora provo a ritrovare il punto di partenza.

Da dove incominciare allora?

Dall’inizio, da quello che per me è l’inizio di questa storia.

Da Mystras, l’antica capitale del Despotato di Morea, da secoli ridotta un cumulo di fascinose rovine. Ma forse, prima di parlare di Mystras, per ritrovare l’atmosfera dei giorni in cui ci sono stata, è meglio fare un passo indietro.